Si è conclusa la Nona edizione del Concorso letterario nazionale “Poesia a Chiaromonte” Memorial Luigi Viola, il compianto sindaco che sostenne sin dall aprima edizione il Premio.

Luigi Viola premia alla Prima edizione

La manifestazione, nata nel 1997, dopo aver vissuto una sospensione forzata di qualche anno è ritornata due anni fa per iniziativa di Massimo Sassano e con il sostegno dellì’Associazione “Il Sorriso”. La serata di premiazione è stata condotta dalla giornalista MAria Paola VErgallito e trasmessa in diretta Facebook sul canale de “La Siritide”.

Una rarissima foto di Massimo Sassano

Il Premio è suddiviso in tre sezioni: Poesia, poesia dialettale e narrativa. Le opere sono state giudicate da una giuria composta da Giuseppe Suriano, docente e scrittore, Presidente, e dai componenti Angelomauro Calza, scrittore e giornalista, Enza Berardone, scrittrice, e Nicoletta Fanuele, scrittrice. Ai primi tre posti, per la Poesia, si sono classificati rispettivamente Maria Matilde Bisegna di Bernalda con “E’ inverno”. Secondo posto per Natascia Milani, con i versi di “Anima” di Maccagno con Pino e Veddasca, in provincia di Varese.

Foto di gruppo post cerimonia

Terzo posto alla poesia “Il gabbiano” di Giuseppe Raineri di Bergamo. Due i premiati per la poesia dialettale: Vincenzina Votta, di Marsiconuovo con “A Primavera” e Piera Caivano, di Picerno, che ha presentato “I Lucani”. Per la sezione Narrativa, primo posto “L’ultimo supereroe” di Michele Ungolo di Stigliano. Piazza d’onore per Angelina Grandinetti, di Perugia, con “Storia di un pupazzo di neve”. Terzo classificato Giovanni Galeone di Mesagne con “Il regalo di Romualdo”. Di seguito i testi delle opere vincitrici.

 

Poesia Italiano 1° Posto di Matilde Maria Bisegna (Bernalda – MT)

E’ INVERNO

Un sole di perla

raggela il cielo pallido.

L’aria inquieta e livida toglie colore alla terra

e raccoglie il sospiro stanco

dell’ultimo albero assonnato.

Le case senz’ombra racchiudono la loro fragilità.

Le strade, mute e sole, vanno senza vita

verso l’orizzonte lontano.

 

Poesia in dialetto 1° Posto di Vicenzina Votta (Marsiconuovo – Pz)

 

A’ primavera

Stamatina ben priest

Han tuzzulat a finestra

Era nu ragg r sol, ca vulia tras inda a casa

P rie na cosa:

“guarda a natura, è arrivata a primavera! ! ! !”

Allora m’ so affacciat fora

e m’so incantata sola sola:

i steli so sces ra a u ciel, e na pianta r ginestra hanna illuminat

Vec inda nu prat, ca accumenzn a cammnà, i fiur appena nat

Si auz a cap m’rend cont

ca nu culor delicat, nu mandorl a mprufumat.

inda u silenzii r sta matina

S sent u cant r nu canarin

ca sopa a nu ram, cu tant amor,

fac nu nir, p i criatur.

Chi meraviglia! ! !

Cu a vocca piglia, erva, ram e fogl

E fac nu mscugl

Tutt ndrcciat

Chin r cura e sntment

Cum sul chi voi chi voi ben, sap fa.

Ch poc cos, ha fatt na casa, addò a famiglia pot stà.

Nu vient delicat

naca u nir senz r s fas sent

e canta na ninna nanna pa vita appena nata

E’ propri! ver, nu nir senza amor

E cumm a na primavera senza fiur

Semb e sul vier indo o cor

Pur inda a fnestra ru ciel, na nuvola ca stai p passà

s’incantata a guarda

S mett a chiang p l’emozioni!!

E na goccia

m car n faccia,

ra l’uocch scenn

ca so accecat ra a luc r a primavera

E ra a meraviglia ra vita e ra natura.

Poesia Narrativa 1°Posto di Michele Ungolo (Stigliano – MT)

L’ ultimo eroe senza poteri

La sordità è stata la mia fortuna.

Mi chiamo Vito Borghi ed ho perduto l’udito a sessantadue anni, poco prima di andare in pensione, a dire il vero, è stato proprio grazie a questa invalidità se ho accorciato gli anni che mi mancavano per congedarmi dal lavoro. Ero il capostazione della ferrovia di Grassano, Garaguso e Tricarico, tre comuni lucani i quali si dividevano in parti eque il merito di aver costruito una stazione per i cittadini lucani. Per me, al contrario, è stata una disgrazia. Il fischio dell’unico treno che passava da lì, mi ha portato a perdere gradualmente uno dei cinque sensi, 130 decibel dentro le mie orecchie, ogni giorno per trentatré anni.

All’inizio ho nascosto a tutti il mio difetto, mi vergognavo troppo e non volevo essere etichettato

come il sordo del paese, Stigliano è una cittadina piccola, ci conosciamo tutti, sarei diventato facilmente lo zimbello di amici e parenti, già immaginavo il soprannome che mi avrebbero affibbiato: “Veite le sorde” (Vito il sordo), del duetto musicale con “Peppe le meute” (Peppe il muto), quest’ultimo, Peppe, era

mio cugino, muto per scelta, aveva fatto il voto del silenzio, “preferisco stare zitto piuttosto che parlare con la gente ignorante”, disse l’ultima volta che parlò.

Io sordo, lui muto, e la band musicale sarebbe stata al completo.

Con il tempo mi sono impegnato e ho imparato a leggere il labiale, ero diventato talmente bravo

che nessuno si è mai accorto della mia sordità, probabilmente non sempre sono riuscito a comprendere le cose esatte, ma oggigiorno chi capisce veramente le cose?

Solamente mia moglie ha seguito l’evolversi del problema, è stata mia complice fino a quando non ha raggiunto nostro Signore.

La sua è stata una morte nobile, si è spenta durante il sonno, e francamente mi auguro di raggiungerla allo stesso modo.

Ho vissuto gran parte della vita dentro le pareti della mia testa, senza udito è difficile aprirsi al

mondo. Quando rimani da solo il tempo non passa mai, dopo aver seppellito mia moglie ho

trascorso due intere settimane a osservare l’orologio appeso sulla parete della cucina, lo fissavo

incessantemente fino a quando le lancette non si posavano entrambe su mezzogiorno, a quel punto

mi alzavo dalla poltrona e cucinavo qualcosa da mangiare, apparecchiavo sempre la tavola per due,

un gesto spontaneo che mi faceva sentire in compagnia. Dopo aver pranzato, lavato e sistemato i

piatti nella credenza, tornavo sulla poltrona e aspettavo che arrivassero le diciannove per accendere

la TV e vedere l’edizione del telegiornale. Alle ventuno, puntuale, salivo al piano superiore, mi

sdraiavo sul letto, fissavo per qualche istante la macchia umida che ingialliva il soffitto intorno al lampadario e infine mi addormentavo.

Una sera mi sdraiai sul letto con addosso ancora i vestiti, fissai la macchia umida fino all’alba,

quando le prime luci del mattino filtrarono dal balcone alla mia destra, mi alzai dal letto, andai in bagno, mi guardai allo specchio, e spuntai un pochino i baffi.

Da ragazzino, a dodici anni, avevo già la barba, rasavo tutto quanto tranne quei pochi peletti che

nascevano da sotto il naso fin sopra le labbra, i baffi mi hanno sempre fatto sentire importante, più

maturo agli occhi della gente. Quando poi sono cresciuto, cercavo di nascondere i peli bianchi tagliando solo quelli, ma ormai non ha più importanza se quelli scuri sono quasi scomparsi.

Raccolsi i pochi abiti che avevo nell’armadio, li misi dentro un sacco nero, poi indossai il basco sulla testa e il gilet di velluto blu, chiusi la porta a chiave con tre mandate e mi allontanai da casa.

All’epoca avevo un piccolo orticello, lo coltivavo e custodivo con gelosia, non avevo molte piantagioni, ma era il mio passatempo preferito. Mi misi raccogliere i pochi ortaggi nati da qualche giorno: quattro pomodori, due zucchine e un’enorme cespo di lattuga, misi tutto dentro il

sacco che conteneva i vestiti, accarezzai la pianta delle mandorle, e con un sorriso mi allontanai da quel luogo creato a mani nude con amore e sudore

Pochi istanti dopo mi trovai di fronte un cancello in ferro battuto, alle sue spalle, oltre il vialetto,

intravedevo l’ingresso della maestosa struttura, simile a una di quelle ville in stile moderno che si vedono spesso nelle vetrine delle agenzie immobiliari.

Sopra il campanello, che suonai per avvertire della mia presenza, era collocata una targhetta in pietra con all’interno il nome del posto “Casa Hostilianus”.

Oggi, a novantasei anni, vivo ancora in questa casa di riposo.

Noi anziani ci muoviamo lentamente, ma i nostri pensieri sono così veloci che spesso li dimentichiamo, un po’ come accade a Maria Antonia, la mia nuova compagna.

Entrambi vedovi con più di novant’anni alle spalle e senza troppe farfalle nello stomaco.

L’amore, quello vero, è quella cosa che provi solo una volta nella vita, puoi sentirlo ardere

dentro, crescere, svilupparsi, mutare, ma rimane sempre tra quelle labbra che sfiorano le tue per la

prima volta, quando ancora non sai nulla di tutto ciò che accadrà dopo. Sfiorare altre labbra, non mi

ha mai dato la stessa emozione della prima volta. Nel momento in cui hai una nuova persona nella

tua vita, il cuore batte forte, ma come accade con la cipolla, per arrivare alla parte interna, il

fogliame esterno si sgretola e non puoi sistemare i pezzi per ricomporla cosi com’era. Siamo una

coppia, ma non abbiamo più nulla da chiedere all’amore, siamo due persone che condividono

insieme i pochi giorni rimasti, ci prendiamo cura l’uno dell’altro senza sognare più di quanto ci è concesso.

Quasi ogni giorno si dimentica di tutto, a volte anche di me, se c’è un qualcosa che mi porto

dietro da anni, quella è la pazienza. Ho appuntato su un taccuino le cose più importanti per lei gliele leggo durante i suoi momenti vuoti, le mostro le foto dei suoi figli e pian piano torna a ricordare tutto quanto. Se Maria Antonia dimentica le cose, io purtroppo ricordo perfettamente tutto.

Gaetano, Vincenzo, Nicola, Antonio, Filippo, sono solamente alcuni degli uomini che nel tempo

hanno condiviso la camera con me, li ho visti entrare con le proprie gambe e uscire con quelle degli altri. Non è stata un’epidemia, una guerra o un meteorite a spazzare via tutti i miei fratelli, ma l’evolversi della vita, e il suo ultimo stadio: la vecchiaia.

Quando rimani l’ultimo, non sempre si tratta di fortuna.

Entrare in camera e trovare una persona nuova che sta per occupare il letto lasciato vuoto è atroce. Ricomincia tutto daccapo: “Piacere, io sono Vito, dormo nel letto vicino al termosifone, l’altro è il tuo”. Inizia sempre così la conoscenza per me, prima si spiegano le regole della stanza, e poi pian piano si illustra tutto il resto.

E dal momento in cui ti affezioni, ricomincia la mia maledizione, l’uomo che fino a pochi istanti

prima divideva la stanza con te, strappava fogli di carta dal tuo rotolo di carta igienica, lavava la

faccia nello stesso lavandino e usava il tuo asciugamano perché non sapeva dove asciugarsi,

sparisce per sempre, l’unica consolazione che ho è quella di non riuscire a sentire il loro dolore.

Quando il mio coinquilino muore, piango per tre giorni, il primo per rispettare la sua assenza e

ricordare quello che mi ha lasciato la sua compagnia, il secondo per la sciagura della solitudine, e il

terzo giorno piango già per chi dovrà arrivare dopo, nel caso in cui sia io a lasciare la stanza prima di lui, voglio ricambiare fin da subito le lacrime che potrebbe versare per me.

Natalino è stato il mio coinquilino per più tempo, alto un metro e novanta, leggermente incurvato

in avanti e magro da far paura, aveva lavorato con l’ANAS fino alla pensione. Amante

dell’abbigliamento elegante, indossava quasi sempre una giacca di velluto marrone sopra una

camicia bianca, le pantofole di pezza, però, non le toglieva mai, diceva: “Quando sto in casa, devo

stare comodo. “Prima di arrivare in Casa Hostilianus subì un intervento chirurgico importante, gli

asportarono parte dello stomaco e da quel momento fu costretto a raccogliere le feci all’interno di

una sacca, per forza di cose le OSS (Operatore Socio Assistenziale) gliela dovevano sostituire ogni giorno.

l tre anni insieme sono praticamente volati.

Aveva quattro figli, tutti maschi, e non passava giorno che non venissero a trovarlo e quando non potevano venire, lo chiamavano sempre

Nella casa di riposo, ognuno di noi trova il suo spazio, una sorta di posto fisso, che non ha nulla a

che vedere con il lavoro, ma semplicemente nella scelta di una seduta, dove ti siedi il primo giorno lì rimani per sempre, e guai a chi osa occupare il tuo spazio.

Avevo scelto una poltrona con alle spalle una finestra che dava sul giardino, da lì avevo ampia

veduta su tutta la sala e potevo controllare entrambi i corridoi di destra e sinistra che portavano al

dormitorio. In realtà avevo scelto quel posto anche perché di fronte avevo la porta dell’ingresso,

ogni tanto mi fermavo a guardarla e speravo entrasse mio figlio, ma questo non è mai accaduto. Ha

dimenticato di avere un padre, io però non ho mai messo da parte l’amore che provo per lui. Troppo

impegnato nella sua vita, non lo biasimo affatto, l’ultima volta che l’ho visto, è stato durante il

funerale della madre, si è fermato per soli due giorni, ma è stato come rivivere tutta la sua infanzia, da all’ora sono trascorsi tanti anni, ho smesso di contarli.

Questo posto è tutto ciò che vedrò da qui alla fine. Non è poi così diverso da una stazione dei treni, ognuno sale e scende, entra ed esce, con la sua valigia oppure senza.

I tuoi abiti d’un tratto non hanno più valore, gli armadi si svuotano, e le borse si riempiono dei pochi affetti che lasciamo nel testamento per chi rimane.

Da giovane la paura più grande è quella di morire troppo presto, da vecchio, invece, è quella di

dover vivere ancora a lungo. Arriva un momento in cui ti svegli dopo una lunga dormita e speri di

trovarti d’innanzi a San Pietro, desideri che apra finalmente quel cancello per farti entrare, ma ciò non accade e ti ritrovi ancora nel tuo letto.

Mi piace credere che, dopo la morte, i pensieri vivono dentro la testa ancora per un po’, fino quando passa qualcuno dalle nostre parti e li recuperai così che diamo vita al nuovo, ed è così che

anche da morti continuiamo a vivere.