Levi individua nella cultura contadina lucana un complesso di valori che non bisogna distruggere, ma che è opportuno riconoscere e conservare. La presa di coscienza sociale nei riguardi della condizione contadina consente la nascita di una sorta di movimento culturale con caratteristiche metodologiche del tutto nuove rispetto alla tradizione di studi sul Mezzogiorno d’Italia

 

di Gaetano Fierro

 

Gaetano Fierro, sindaco di Potenza dal 1980 al 1990 e dal 2000 al 200

In Europa, chi accelera, suo malgrado, il dibattito politico e ideologico sul Sud d’Italia, durante gli anni della ricostruzione morale e fisica del Paese, è Carlo Levi che ha il grosso merito di collocare dentro una prospettiva sociologica estremamente ancorata la condizione della gente di Basilicata con il libro Cristo si è fermato ad Eboli. Levi individua nella cultura contadina lucana un complesso di valori che non bisogna distruggere, ma che è opportuno riconoscere e conservare. E’ del 1945 la “scoperta della condizione contadina”, con tutti i risvolti di ordine culturale-religioso, da cui prende avvio – corroborata anche dalla pubblicazione delle riflessioni gramsciane sulla cultura popolare – un crescente interesse per il mondo popolare nelle sue varie manifestazioni, più o meno intrecciato con progetti di riscatto delle masse contadine. Le prime avvisaglie di questo interesse verso il Mezzogiorno d’Italia giungono in occasione del viaggio di Levi negli Stati Uniti d’America.

Prima che fosse disponibile la versione inglese (Christ stopped at Eboli; traduzione di F. Frenaye, New York, Farrar Straus and Company 1947), il libro era conosciuto in particolari ambienti ebraici o italo-americani; il viaggio in America di Levi nel 1947, grazie anche alla sua personalità carismatica, si trasformò in un grande successo personale cui seguì immediatamente l’entrata trionfale del libro nella classifica dei best-sellers: mass-media entusiasti e recensioni estremamente lusinghiere sulla prima pagina della stampa che conta, “New York Times” e “Herald Tribune”.

Carlo Levi (da archivio centrale dello stato)

La breccia era ormai aperta con effetto trainante anche per altri autori della letteratura italiana. Carlo Levi schiudeva la conoscenza della tragica e diversa umanità del mondo contadino alla nazione più industrializzata venendo peraltro a colmare l’orizzonte di attesa di una massa enorme di emigrati che intendeva riconoscere e rivivere le proprie origini. Un dato naturaliter sociologico s’innesta. Il Cristo non solo entrò come testo obbligatorio nei corsi di italiano di alcune Università, ma, come ci avverte la preziosa testimonianza di Tullio Tentori, al Dipartimento di antropologia e sociologia della Ohio State University di Columbus se ne faceva una utilizzazione in chiave squisitamente antropologica. Non diverso, del resto, il taglio di lettura di George M. Foster, direttore dell’Istituto di Washington. Lo studioso non dà molta importanza al substrato politico-ideologico, ma vede nel Cristo un capolavoro letterario, che “ha portato all’etnografia uno dei più piacevoli e penetranti studi di cultura popolare europea” e “più vita e significato che una dozzina di artigiani dell’etnografia”: di particolare interesse la possibilità che se ne ricava di uno studio comparativo di modelli comuni alle regioni latino-americane e del Mezzogiorno d’Italia.

Questa prorompente presa di coscienza sociale nei riguardi della condizione contadina consente la nascita di una sorta di movimento culturale con caratteristiche metodologiche del tutto nuove rispetto alla tradizione di studi sul Mezzogiorno d’Italia. Viene cioè raccolto, in varie forme, l’auspicio di Levi, ma il movimento ha meno propensioni letterarie e idoleggiamenti della cosiddetta civiltà contadina di quanto si creda; ha soprattutto capacità d’iniziativa favorendo la conoscenza di un diverso metodo di lavoro, un modello di collaborazione interdisciplinare tra l’attività di ricerca e la formulazione degli obiettivi di una nuova politica sociale.

Si concentra, d’ora in poi, verso i problemi del Sud d’Italia, un forte interesse da parte di consolidate istituzioni, americane soprattutto, quali l’UNESCO, la Fondazione Rockefeller, il Fulbright Exchange Program, la Community Development Division of Economic Cooperation Administration, l’American Friends Service Commitee, l’UNLA, lo Svimez, il Gruppo Olivetti, l’UNRRA-CASAS, l’UNU, l’Esso Standard Italiana, l’Istituto di Economia e Politica Agraria Portici, il Formez, la Shell Italiana ecc.

La maggior parte di tali istituzioni, muovendosi nell’ambito delle direttive dell’AEP (OECE), ed avvalendosi di etnologi, antropologi, sociologi e storici, confrontano sul campo e con indagini ben localizzate le loro sperimentazioni nelle “aree di sistemazione” non solo, ma anche le categorie interpretative del fenomeno, quello della civiltà contadina, dalle molte facce, allo scopo di individuare la specificità di una cultura legata al mondo rurale. Alla formazione di questa nuova tecnica metodologica, chiamata team work, concorrono i diversi studiosi provenienti, guarda caso, dall’America, come George Peck, Friedrick G. Friedmann, Ann Cornelisen e Edward C. Banfield. Chi essi siano, perché vengano in Basilicata, chi li mandi lo capiremo meglio attraverso la serie di considerazioni che illustreremo da qui a poco. E, vale la pena sottolineare che, nonostante la modestia delle dimensioni, il passaggio dall’antico al nuovo modo di concepire il meridionalismo porrà il “caso Basilicata” in una posizione socio-politica di tutto rispetto, anche se, per certi versi, estraneo al contesto civile locale.

Carlo Levi ad Aliano

Il meridionalismo è riaffermato sia come controprova della colpevole indifferenza delle classi dirigenti, prefasciste e fasciste, ai problemi, alle sofferenze e alle iniquità sociali del Sud, sia come proposta politica di rinnovamento democratico a salvaguardia dei ceti più deboli ed emarginati, sia infine come riscoperta della condizione contadina, della sua ricchezza etica, culturale, spirituale, della profonda dignità e libertà umana che in essa si incarna.

Nel loro viaggio in Basilicata questi studiosi, culturalmente diversi tra di loro, ma accomunati dal medesimo obiettivo, partono da un comune denominatore: la scoperta di una realtà socialmente misera e rassegnata come quella della Basilicata. Dovunque essi rivolgano lo sguardo “trovano mille motivi per gridare al mondo la loro indignazione: un mondo di gente indifesa e triste che “si sveglia presto e presto si addormenta”. Desolazione e squallore dappertutto: è questo il grido accorato e la loro coraggiosa denunzia civile.

Temi che trovano eco anche nel Parlamento italiano, dove la voce della coscienza democratica, elevandosi dalla sordità generale del Paese, reclama il diritto di avviare delle inchieste parlamentari nel Sud d’Italia. Famose restano quella di Tremelloni sulla occupazione (1952-53) e l’altra di Vigorelli sulla miseria (1953-55). In queste contrade, una volta culla di pensiero e di filosofia, la civiltà è lentissima e si vive a passi di tartaruga. Ieri come oggi.